“Fino a pochi anni or sono, sulla snella torre del Castello dell'Abbadia si stagliavano contro il cielo della Maremma le fronde di un piccolo leccio arruffato e contorto. Così ridotto dai venti di tramontana, che spesso si spingono a spazzare la pianura desolata e spoglia, il curioso alberello costituiva la testimonianza più eloquente di una lunga incuria, cominciata probabilmente il giorno in cui l'antico maniero cessò di essere dogana pontificia in seguito all'annessione dello Stato della Chiesa al Regno Unito d'Italia”. Con queste parole inizia il libro dedicato dallo scrittore Alfio Cavoli al territorio vulcente ed alla bellezza dei suoi monumenti, considerati per troppo tempo come secondari e “preda” di uomini senza scrupoli. Il Castello dell'Abbadia si presenta subito all'occhio del visitatore come guardiano silenzioso, con la sua torre alta e snella, di quell'importante via di comunicazione che rappresentava il ponte sul fiume Fiora, capolavoro dell'ingegneria etrusca ed arteria vitale dell'Etruria meridionale. Questo complesso, che presenta una pianta poligonale con torri circolari sugli angoli perimetrali, ha subito nel corso dei secoli numerosi rifacimenti in base alle diverse destinazioni d'uso che ebbe, alterando notevolmente la sua struttura originaria. Per quanto riguarda le sue origini, ci rimangono solo poche notizie frammentarie, ma si sa con certezza che nel IX secolo aveva una funzione religiosa. Infatti, un documento dell'809 riporta che due nobili di stirpe longobarda, Faulo ed Autari, figli di Arminio, donarono la chiesa benedettina di San Mamiliano all'Abbazia di Farfa. Questa chiesa aveva un aspetto fortificato probabilmente per difendersi dalle frequenti incursioni dei Saraceni, così da poter costituire un rifugio anche per le piccole comunità della zona, come avvenne per l'assalto a Vulci dell'827 ed altre incursioni nel 935. Si apprende inoltre che nel 964 l'abbazia fu rasa al suolo, come la vicina città vulcente, e che la sede vescovile fu trasferita a Castro. Non poco tempo dopo, il complesso venne riedificato e ricompare nei documenti solamente nel 1053, quando il papa Leone IX lo conferma nella diocesi di Castro. Un'ulteriore attestazione documentaria risale ad una bolla di Innocenzo II del 1140, in cui si dichiara l'appartenenza dell'abbazia di Vulci alla Camera Apostolica che la mantiene fino al pontificato di Alessandro III quando il complesso diventa dipendente da S. Giusto di Tuscania, gestita in quel momento dai monaci cistercensi. Ma il possedimento tuscanese dell'Abbadia è di poca durata in quanto il monastero ritorna ai primi del ‘200 sotto il controllo della Santa Sede. Tutti questi passaggi di proprietà possono essere probabilmente spiegati dalla posizione strategica del complesso, in quanto baluardo monastico-militare nel controllo e nella gestione del grande e ricco territorio vulcente. È ai primi decenni del XII secolo che risale l'attuale aspetto architettonico delle mura del castello, che viene d'ora in poi associato come pieve a Musignano. Questi sono anni di intense lotte per il controllo della zona e del castello di Montalto di Castro, che coinvolgono inevitabilmente anche la vicina abbazia di Vulci. Un ulteriore cambiamento è attestato dalle fonti nel 1230, quando la cittadina di Montalto cede il castello-monastero dell'Abbadia nuovamente a Tuscania, fino a quando Gregorio IX annulla questo trattato e Martino IV, nel 1283, la ristabilisce di nuovo appartenente al “Demanio Speciale” della Camera Apostolica. È possibile che sotto il pontificato di questo papa l'abbazia sia stata tenuta dai Templari, come mostra il nome di alcuni castellani, fino all'abolizione dell'ordine avvenuta nel 1311. Una fonte riporta che nel 1313 il borgo presso il castello, abitato da 96 famiglie, fu incendiato e distrutto da Cornetani e Viterbesi, e che nel 1320 alcuni membri di una famiglia di signorotti orvietani di lontana origine longobarda, i Farnese, occupano Canino e pongono l'assedio al castello di Vulci. Anche la famiglia dei prefetti romani Di Vico si lega alle lotte per il possesso del castello di Vulci, che riuscì ad occupare dal 1351 al 1353, per essere poi affidato dall'antipapa Clemente VII, al nobile lucchese Alderico Interminellis. Tra il 1383 e il 1385 il castello è occupato dalle truppe bretoni sempre al servizio di Clemente VII, per essere poi dato in gestione a diversi capitani di ventura quale pegno per il soldo loro dovuto. Nel 1425 il vicariato ereditario dell'Abbadia è concesso a Ildebrandino Conti, dietro il pagamento di un censo annuo, finche nel 1430 è affidato a Ranuccio Farnese il vicariato di Montalto di Castro e dell'Abbadia di Vulci, tolta a Grato Conti, figlio di Ildebrandino, in cambio del feudo di Paliano. Soltanto nel 1513 il papa Leone X trasforma il vicariato dei Farnese in investitura perpetua, a favore del cardinale Alessandro Farnese e di suo figlio Pierluigi. Ed è proprio al periodo in cui fu gestita dai Farnese, che la fortezza di Vulci ha il suo massimo splendore come si può notare anche da alcuni ampliamenti ed abbellimenti della struttura, come l'apposizione dello stemma della nobile famiglia sugli architravi delle finestre che si affacciano sul cortile. I racconti riportano, infatti, il particolare piacere provato da Paolo III (l'ex cardinale Alessandro Farnese) nei frequenti soggiorni al castello durante il suo pontificato. Essendo quindi una proprietà dei Farnese, le sorti del castello si legano inevitabilmente alle vicissitudini del Ducato di Castro, di cui entra a far parte subito nel 1537. Dopo circa un secolo di relativa stabilità, nella prima metà del XVII secolo si riaccendono le lotte tra i Farnese e lo Stato della Chiesa per il possesso del Ducato che, attraverso alterne vicende, videro la sconfitta dei Farnese e la distruzione della loro capitale, Castro. In questo scontro Urbano VIII Barberini fece ricorso anche alla scomunica dell'intera popolazione del ducato. Questa notizia ci chiarisce meglio una fonte che riporta di una processione, avvenuta il 27 aprile 1628 a Vulci, con cui il vescovo di Castro fece atto pubblico di penitenza in seguito a tale scomunica. Le lotte tra i due stati ebbero un periodo di tregua fino al 1649, anno in cui l'uccisione del neovescovo di Castro Cristoforo Giarda, aprì la strada alla successiva invasione del Ducato da parte dell'esercito del nuovo papa Innocenzo X Pamphilj. Dopo la sconfitta di Castro, il complesso dell'Abbadia perse ormai le funzioni che aveva avuto nei secoli precedenti, e venne considerato a questo punto soltanto come un vasto possedimento agricolo dato in affitto dal papa ad un unico intermediario. Solo dopo il pontificato di Pio VI (1775-1799), la Camera Apostolica inizia a cedere il fondo in affitto o in enfiteusi a più persone separatamente. Degna di nota è la castellania di Luciano Bonaparte, che dopo aver comprato il possedimento di Vulci insieme ai feudi di Canino e Musignano, viene nominato Principe di Canino da Pio VII e gli viene riconosciuta la possibilità di trasmettere il titolo e le terre ai propri successori che, nel 1853, vendono titoli e possedimenti ai Torlonia, che restano padroni della zona e del castello di Vulci fino al 1960, quando il complesso viene loro espropriato ed iniziano i lavori di ristrutturazione che porteranno alla creazione nel 1975 del Museo Archeologico di Vulci.

È proprio agli inizi degli anni 60 e ai lavori di ripristino delle strutture del castello, che viene riportato alla luce un gruppo di materiali ceramici medievali e rinascimentali che si trovavano in un butto ricavato al pianterreno della torre principale del castello. In questa, infatti, dopo essere stata chiusa l'entrata principale, creando un accesso secondario posto più in alto, si era costruito un rialzato in legno munito probabilmente di una botola da cui si potevano gettare i rifiuti. Si ritiene che tale cambiamento, con riscontri sul territorio che vanno da Bolsena a Civitavecchia, sia avvenuto durante la prima metà del XV secolo, in relazione forse alla progressiva diffusione di migliori norme igieniche o allo scopo di consolidare maggiormente la base della torre, per aumentarne la stabilità e il potere difensivo. Probabilmente un altro motivo per cui si è decisi di utilizzare la torre come butto, è la notevole difficoltà di scavare pozzi sotterranei nel durissimo strato calcareo su cui sorge il castello. Contemporanea al riempimento della torre, dovrebbe essere la scala esterna addossata ad una parete del cortile, che permetteva di accedere al piano superiore, dopo che l'entrata della torre e la scalinata interna erano stati occlusi. Questa prima scala doveva essere verosimilmente costruita in legno, e solo successivamente rimpiazzata da una in muratura, esistente ancora negli anni 60 insieme ad altre sovrastrutture di epoche successive. Per quanto riguarda la torre, dalla prima metà del XVII secolo non sembrano esservi state ulteriori modifiche, così da permettere il mantenimento dell'ambiente in cui era stato ricavato il butto fino alla data della sua scoperta, ancora ricoperto da un soppalco di tavole in legno all'altezza del primo piano. Una documentazione stratigrafica dello scavo sarebbe stata determinante per una verifica delle ipotesi di soluzione avanzate. Si è potuto comunque accertare, a ulteriore conferma dell'utilizzazione della torre come butto dalla prima metà del ‘400, che i materiali furono rinvenuti a livelli diversificati e a partire dalle quote di base del pozzo. Per quanto riguarda i reperti ceramici, i dati forniti dallo scavo sono i seguenti. Per il periodo più antico, cioè alla prima fase dell'utilizzo del butto, troviamo 7 reperti databili al “periodo di transizione della maiolica arcaica” o “periodo finale orvietano” tra l'ultimo quarto del XIV secolo e la prima metà del XV. Prevalgono le forme aperte su quelle chiuse e la loro produzione è completamente alto-laziale sia per le particolarità tecniche sia per i temi riprodotti, come i doppi semicerchi e le foglie lobate. La localizzazione delle fornaci dovrebbe essere presumibilmente tra il territorio di Castro e il lago di Bolsena. Si tratta di pezzi di media qualità con copertura a smalto stannifero con bassa percentuale di stagno, decorati in ramina e manganese, mentre è assente del tutto il blu cobalto, che già dagli inizi del XV secolo è presente nella produzione di Viterbo e dell'Alto Lazio. Tutti i reperti di questo periodo permettono di intravedere un relativo benessere dell'Abbadia, proprio negli anni della sua gestione da parte di Ranuccio Farnese, intorno al 1430. Più consistente è il numero dei reperti della prima fase rinascimentale (metà ‘400-primi ‘500), 19 pezzi, con la prevalenza sempre di forme aperte ma più ricche nelle forme e nella decorazione, grazie anche ai nuovi colori impiegati. Sono prodotti di area laziale e toscana, con l'aggiunta di due pezzi d'importazione ispano-moreschi, attribuiti a fabbriche di Manises: questo ci attesta lo stato di accresciuto benessere di chi viveva nel castello, ma anche l'incremento degli scambi commerciali che avevano permesso l'afflusso di prodotti da altre regioni. Diverse sono le tecniche impiegate, che vanno dalla maiolica a smalto stannifero, alla mezza maiolica ingobbiata e dipinta, dalla mezza maiolica ingobbiata e graffita, alla mezza maiolica dipinta e vetrinata, alla maiolica stannifera con colori a lustro. Per quanto riguarda i colori, oltre all'uso di ramina e manganese, sono stati impiegati anche il blu cobalto, la ferraccia e il giallo antimonio, il tutto in un insieme cromatico utilizzato per palmette a ventaglio, raggi sfolgoranti, scudi araldici, un monogramma bernardiniano, cartigli iscritti, foglie a cartoccio, puntinati. È interessante notare l'assoluta assenza di ceramica da fuoco, che si ripete per tutti i diversi periodi del butto, che può essere spiegata con l'ubicazione delle cucine in un'altra ala dell'edificio, con la presenza di un altro presunto butto, forse la scarpata stessa sul fiume Fiora. I reperti che vanno dal primo decennio alla metà del XVI secolo presentano una ancor più ricca qualità, con la presenza, sempre accanto a prodotti alto-laziali, di grandi piatti da pompa, come l'esemplare importato da Deruta ed eseguito nella tecnica del lustro-oro, o il piatto-tondino importato da Faenza. I prodotti locali di questo periodo si rifanno anch'essi alla forma del piatto medio e grande da pompa, del bacino troncoconico, della ciotola emisferica, del tondino, dell'orciolo, del boccale, e sono eseguiti in maiolica a smalto stannifero, in mezza maiolica ingobbiata e dipinta, in terracotta invetriata. Per quanto riguarda i colori e i temi trattati, gli esemplari riportano un gusto prevalente per l'associazione cobalto e ferraccia, con motivi floreali, doppi semicerchi, raggi sfolgoranti, oppure lo stemma araldico contornato da nastri, i ritratti femminili, un ritratto maschile con un paesaggio, la girandola. A questo periodo risalgono anche i piccoli vasetti invetriati per uso di cucina o farmaceutico, insieme ai piattini smaltati che dovevano avere le medesime funzioni. Per i prodotti risalenti all'ultimo quarto del XVI secolo, si nota una progressiva diminuzione numerica ed una qualità più scadente, anche se abbiamo notizie della presenza di botteghe di vasai a Castro. Questo è un periodo in cui il Duca di Castro risiede ormai a Parma, ed usa il territorio del ducato solo per tassarlo così da poter pagare i debiti contratti con lo Stato della Chiesa. È proprio questo stato di instabilità ed insicurezza che emerge dalle ceramiche del butto di questo periodo: sono anni in cui l'Abbadia è lasciata alla propria sorte, in cui qualsiasi piccolo lavoro di mantenimento della struttura è sostenuto economicamente solo dal castellano, che non aveva adeguati mezzi per un'accurata manutenzione dell'edificio. Con la fine del Ducato di Castro, anche il castello scivola in una lenta crisi e in un isolamento secolare, tornando nel 1649 nel patrimonio della Santa Sede e giungendo fino a noi in condizioni di completo abbandono. Del periodo successivo della riconquista pontificia del complesso, ci restano solo tre pezzi, probabilmente finiti casualmente nel butto in un periodo in cui questo era già stato abbandonato. Soltanto grazie ad una nuova scoperta fortuita nel 1988 si è riusciti a recuperare ulteriori materiali, tralasciati dallo scavo precedente. Si tratta di pezzi che vanno dalle ceramiche d'uso quotidiano del XIX secolo, alle maioliche del XIV secolo. Tutti questi reperti erano mischiati insieme in uno strato, che si è poi dimostrato soltanto il primo di una serie di tre. Il secondo, datato presumibilmente tra il IX e l'XI secolo, conteneva depositi calcarei, terra, reperti ceramici (acromi) e osteologici. Sotto questo livello se ne è trovato uno ulteriore dove si è scoperta una tomba a fossa di forma rettangolare contenente uno scheletro in posizione supina, che però non si è potuto datare a causa dell'assenza di corredo.


Bibliografia

CORSINI ALBERTINA , Vulci - Ceramiche dal “butto” della Torre , 1995

ARETHUSA S.r.l. a cura di, Itinerari a Vulci , 1996

CAVOLI ALFIO , Profilo di una città etrusca - Vulci , 1980

MORETTI MARIO a cura di, Vulci , 1982


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